Marzo 2021. Un anno giusto dall’inizio di una nuova vita di isolamento. Molte cose si sono congelate da allora, e a dire il vero ancora oggi il loro scongelarsi sembra piuttosto lontano, impalpabile. Se c’è qualcosa che ha però decorato le pareti di quella costruzione fredda e decisamente grigia che è il paradigma di nuovi rituali e abitudini introdotte dall’epidemia, ovviamente quella cosa è stata la musica. Ho pensato che sarebbe stato bello proporre su Instagram, cornice dalla quale siamo ormai anestetizzati e rassegnati ad osservare quello che in un modo o nell’altro scorre fuori, una serie di selezioni abbastanza variegate che raccogliessero le mie fisse degli ultimi mesi. Alla fine ne ho fatte quattro, e per l’ultima ho chiesto ad un amico di scrivere qualche parola. In ogni caso, ora le potete trovare tutte quante anche qui.
In copertina ho messo una fotografia di Lucio Battisti a Pompei, con una camicia leggera come la primavera nei giorni in cui si respira nell’aria il caldo dell’estate che sta arrivando. Molto italiana e molto rappresentativa dei desideri di chiunque in questo momento.
CANZONI E NON CANZONI – LUCIO BATTISTI
Lucio è un monolite della cultura italiana. ln tandem con Mogol ha forgiato un nuovo modo di fare canzoni, le parole che ha cantato fanno ora parte del linguaggio comune e, soprattutto, è entrato concretamente nelle vite degli italiani nel modo più semplicemente geniale che si potesse immaginare: parlando delle loro stesse vite e cristallizzando in musica quello che provavano ogni giorno. Ma su questi aspetti fondamentali della sua opera sono già stati versati fiumi di inchiostro e non credo di poter aggiungere molto altro senza risultare banale.
Ciò che mi interessa immortalare in questo mix è, piuttosto, un aspetto che trovo estremamente affascinante della musica di Battisti, una sfumatura presente in tutti i suoi dischi, che però ho colto pienamente solo negli ultimi mesi: il fatto che le sue canzoni, anche le più celebri, considerate univocamente gemme pop, si muovano, di fatto, sempre aldilà dei confini del “pop”. È come se ci fosse una volontà sotterranea la musica di Lucio, e questa è il voler costantemente spingere il pop e le sue formalità oltre i propri limiti, stropicciandolo, riavvolgendolo, divertendosi e giocando con la canzone italiana, che perde le sue tradizioni ottuse comunemente riconosciute prima di lui per raggiungere una forma inedita.
Lucio, insomma, ha sempre fatto quello che voleva, e questa selezione di pezzi vuole (ri)scoprire e celebrare questa libertà tra gemme rock’n’roll, prog latineggiante e grooves funk, con un pizzico di psichedelia beatlesiana.
World nuggets
In un anno atrofizzato, dove i viaggi, gli incontri, le contaminazioni culturali si sono congelati in attesa di una rinascita che stiamo ancora aspettando, ho viaggiato il più possibile con la testa. E con le orecchie.
In questo secondo mix ho pensato di riprendere il concetto della leggendaria compilation della Elektra Nuggets: Original Artyfacts from the First Psychedelic Era, 1965-1968 (1972) per proporre una selezione di brani di matrice psichedelica da diverse parti del mondo, coprendo un arco di tempo che va dalla seconda metà degli anni 60 a fine 70, più o meno. Ispirandomi all’illuminante lavoro filologico del buon Egon con la sua NowAgain e condividendone lo spirito di ricerca e la passione per la riscoperta di musica inusuale, sorprendente e spesso dimenticata, ho cercato, nel mio piccolo, di raccogliere in questa playlist tutte le nuggets che ho scovato nel corso del 2020.
Quindi garage-beat, folk, pop, funk, rock acidi da Africa, Asia, Sud America, Turchia e Balcani.
metalface | metalfingers – mf doom
La maschera, oggetto e concetto, viaggia avanti e indietro nelle ere e nelle culture e infila su una freccia ideale l’arcaicità del mondo primitivo alla socialità volatile contemporanea.
La maschera africana, spirituale e sociale allo stesso tempo, viene resuscitata dal Novecento nelle Demoiselles D’Avignon di Pablo Picasso, nell’espressionismo tedesco e nei Fauves. La maschera funebre di Agamennone incide nella storia il potere, la ricchezza e il valore dell’uomo sul cui volto defunto è stata modellata, al contrario la maschera ideale indossata nei rapporti alienanti e svilenti che caratterizzano il nostro secolo si macchia di attributi falsi e negativi.
Daniel Dumile sceglie di indossare la maschera per ragioni da un lato originali, dall’altro ripescate spontaneamente dalle peregrinazioni che questo simbolo ha percorso nel tempo. Così, l’infatuazione per i fumetti che lo porta al concepimento della sua prima maschera, gli permette in parte di fuggire dai meccanismi del mercato discografico, ma anche dai meccanismi psicologici e percettivi di chi ascolta. La maschera di DOOM significa secondo me una cosa prima di tutto: è la mia musica che conta. Puoi vedere solo i miei occhi, sentire le mie rime e la musica che faccio. Non ti interessa se sono bello o brutto, grasso o magro o qualsiasi altra cosa. Il mercato discografico cerca di incastrarmi come la polizia tallona i cattivi dei fumetti, ma io sono ancora il Supervillain e mi comporterò di conseguenza. D’altro canto, la maschera, più inconsciamente, diventa la piattaforma attorno alla quale l’intero universo DOOM si autogenera, disco dopo disco. Diventa un riferimento, un’entità intoccabile e inconfondibile, un suono, delle rime elastiche, uno stile che sarà ispiratore per molti, ma mai raggiunto.
Questo escapismo totale DOOM l’ha mantenuto anche quando il 2020 si è portato via, in silenzio, il suo corpo. Credo che l’anima sia ancora qui.
acid pizza – italia psychodelica
Le parole sono di Lorenzo Ottone, curator di Ragazzi di Strada e DJ con Mondo Erotico su Radio Raheem. Lo ringrazio di cuore e vi invito a seguire ciò che fa, la musica bella e lui vanno piuttosto d’accordo.
“In anni in cui l’espressione “Okay Boomer” viene dispensata senza pietà per mettere in croce tutti quegli uomini di mezza età – dai nostri padri ai redattori di testa musicali, figli sconfitti di una musica vista come attitudine dello spirito e penne frustrate dal mancato successo della loro band post-punk adolescenziale – Acid Pizza – Italia Psychodelica, ci ricorda di tempi in cui erano i matusa a impartire lezioni ai ragazzi. L’Italia del Boom, travolta dall’entusiasmo della Beatlemania è una nazione che nel giro di tre anni, dal 1965 al 1968, da alle stampe centinaia di 45 giri dalle velleità Beat, per non parlare poi di tutti quei complessi locali che non arrivarono nemmeno al traguardo del vinile.
In questa sbornia Beat, in cui il capellone diventa in giro di poco tempo un fenomeno pop, tra moralismi democristiani, gag televisive e spietata società dei consumi, i giovani italiani sembrano perdersi la psichedelia; la quale rimane un fenomeno più di costume, come testimoniato dalla celebre festa a tema hippy organizzata nel 1967 dal Piper Club di Roma. Mentre in Inghilterra e America, già a partire dal 1966, molti complessi Beat scoprono l’India, gli acidi, i sitar e le chitarre a 12 corde, l’Italia dal punto di vista musicale è ancora presa dallo scuotere le chiome zazzerute al grido di maccheronici Ye Ye. Il compito di importare nel Belpaese le nuove suggestioni acide, spetta dunque a chi in Italia, tra ’60 e’ 70, rappresenta la vera avanguardia: i compositori di colonne sonore. Uomini di mezza età, padri di famiglia, con formazione classica o jazzistica, che senza paura si lanciano sui sitar, sui sintetizzatori e sui Moog. Uomini distinti, dall’aspetto da impiegato in giacca e cravatta, probabilmente più inclini a un fiasco di vino che ad un francobollo di LSD, che però riescono a catturare lo zeitgeist del nuovo underground. Ennio Morricone, i fratelli Reverberi, Giuliano Sorgini, Piero Umiliani, Piero Piccioni, Augusto Martelli, Sandro Brugnolini, sono solo alcuni dei nomi che – con la libertà d’azione consentitagli dalle sconfinate produzioni cinematografiche e dalla Library music, la musica da sonorizzazione radio-televisiva – si lanciano in sperimentazioni sonore e sensoriali che risultano tutt’ora fresche ed autentiche. La psichedelia si intreccia alla sensibilità nuova del jazz mediterraneo, facendosi permeare tanto dall’eleganza della jet set life del periodo, quanto dal mistero evocato dalle culture inesplorate documentate dai Mondo Movie. La psichedelia cinematica quasi sembra evocare immagini lisergiche ma precise, che parlano la lingua del design radicale, della tensione dell’arte cinetica, e dei party di un’Italia ormai decadente, in cui giovani e meno giovani si mischiano, si annusano, si influenzano, si amano per poi dimenticarsi alle luci dell’alba, senza rendersi conto che i ’70 e gli Anni di Piombo sono già dietro l’angolo. Ironia della sorte, saranno proprio i capelloni ad andare alla corte dei maestri. Dai genovesi Nuova Idea che eseguono sotto gli alias Psycheground e The (Hot) Underground Set jam acide di Gian Piero Reverberi, a Ennio Morricone che in un dancing sul lido ostiense intuisce il potenziale dei Chetro & Co., che finiranno così a collaborare con Pier Paolo Pasolini ad un singolo. Ci sono, comunque, una serie di gruppi che sanno cogliere in tempo le suggestioni estere, lanciando agli ascoltatori del tempo, abituati ad un mercato fatto di Bandiera Gialla, singoli e juke box, la sfida di album di inediti in cui è l’esperienza complessiva a contare. Sono Le Orme del capolavoro Ad Gloriam, i primissimi Nomadi, Le Stelle di Mario Schifano, progetto di stampo Warholiano dell’artista romano, il quale è anche responsabile della copertina dell’LP “Stereoequipe” dell’Equipe 84, con cui Vandelli e soci – i veri dandy della musica italiana – virano addirittura sul pop barocco, in stile Sgt. Pepper’s. La stagione della psichedelia italiana dura poco, rimangono frammenti sparsi, cristalli sognanti, prima della svolta Prog e cantautorale, in cui la filosofia Beat viene declinata nell’utopia delle comuni e di una fallita rivoluzione politica.”